Medicina narrativa : ho bisogno di raccontare questa storia

Categoria: Medicina e Società
Pubblicato: Lunedì, 20 Novembre 2017 13:07
Scritto da Ryder Italia Onlus
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Traduzione dell'articolo presente sul sito : http://www.theintima.org/i-need-to-tell-this-story.html

Ho bisogno di raccontare questa storia.


Katherine Guess

 “Quando hai intenzione di scrivere il tuo libro?” I miei amici e la mia famiglia mi fanno questa domanda dal 23 maggio 2007, quando sono stata rilasciata dall’ospedale. Dopo aver avuto un coagulo all’arteria carotidea e una dissezione, fratture facciali multiple che hanno reso necessari numerosi interventi chirurgici ricostruttivi, e essere stata all’ospedale per 24 giorni, considerano la mia storia notevole. Incredibile. Miracolosa. Ma non posso fare a meno di domandarmi come possa importare delle mie esperienze a qualcuno che non mi conosce.  La mia storia non è diversa o più speciale di qualsiasi altra storia di malattia. Perchè dovrei preoccuparmi di scriverla?

Dalle favole alle biografie, le storie possono acquisire significati terrificanti, incoraggianti, o essere fonte d’ispirazione, a seconda di chi le legge. Lo stesso avviene per la medicina narrativa, le storie di dolore, sofferenza, sopravvivenza e resilienza. Ho incontrato per la prima volta la “ medicina narrativa” nei miei giorni di studentessa universitaria. Mi iscrissi a un corso su questo argomento e dedicai un semestre a leggere ogni cosa da storie di fantasia sulla malattia a veritieri esempi degli incredibili percorsi  nei quali la malattia può trascinare pazienti e famiglie. È stato allora che ho cominciato davvero ad apprezzare l’effetto che una storia può avere e ho realizzato che il mio incidente d’auto e gli interventi chirurgici, le visite dai dottori, e i due o tre anni che ne sono seguiti costituivano la mia narrativa medica. È stato allora che ho iniziato a realizzare che, per un medico, uno dei ruoli più importanti è quello di ascoltare apertamente la storia del paziente, rispettare questa storia, e integrarla nella sua cura.

Per via della mia personale esperienza di trauma, ho sviluppato un interesse ad assistere nel campo della traumatologia. Nel marzo del mio secondo anno di scuola medica, sono stata testimone diretta del potere della medicina narrativa. In quel mese ho dedicato del tempo ad affiancare una chirurgo traumatologo donna nell’istituzione di cui facevo parte. Quando un giovedì pomeriggio sono arrivata al primo piano, il chirurgo mi ha fatto notare che era stata una settimana piuttosto dura nell’unità di traumatologia. Quel giorno aveva appena portato a termine due consultazioni da fine vita. In queste sessioni, era il suo compito dare alle famiglie delle opzioni per i passi successivi nella cura dei pazienti. Di solito vi sono solo due possibilità- rimuovere il paziente dal supporto vitale o trasportarlo/a in un luogo di assistenza a lungo termine.  La stanza nella quale si tengono questi colloqui, la stanza delle “consultazioni familiari”, è anche conosciuta dalla maggior parte dei membri della famiglia come “la stanza delle cattive notizie”. Se la famiglia viene chiamata per una consultazione in quello spazio stretto, sanno che una discussione dolorosa e temuta è inevitabile.

Quel giorno arrivai appena in tempo per l’ultima consultazione del medico. Qualche giorno prima, un ragazzo venticinquenne era arrivato all’unità di traumatologia dopo aver avuto un incidente con la moto.  Quando siamo arrivati la famiglia e gli amici del paziente stavano aspettando calmi nell’affollato spazio triangolare della stanza di consultazione. Mi sono messa dietro al chirurgo, a un case manager, un assistente sociale e un altro studente. Ho sorvegliato la stanza e ho riconosciuto il senso di simultaneo sollievo e intensa paura degli individui che ci avevano visti entrare. Fatte le presentazioni il meeting è iniziato.

Come mi aspettavo, il personale medico presentò alla famiglia le solite opzioni- togliere il paziente dal supporto vitale o trasportarlo in un posto di assistenza a lungo termine. In risposta a questo, la moglie si mise a raccontare la vita del paziente, la sua narrativa. Con calma descrisse la pienezza del suo breve matrimonio con suo marito, i lunghi viaggi sul retro della sua motocicletta, le avventure di climbing fatte insieme, e i viaggi lungo la strada. Ci disse della sua adorazione per sua nipote, la sua dedizione alla sua fede, e il suo essersi impegnato con lei. Poi ci disse la sua storia. Ci descrisse la sua vita a San Francisco, il suo lavoro, e le costanti minacce che lei gli faceva riguardo al suo non rispettare le misure di sicurezza andando in moto. Concluse con una spiegazione riguardo al suo non essere preparata a prendere una decisione riguardo al futuro di suo marito.

Mentre guardavo la ragazza, che era solo un anno o due più grande di me, dire la sua storia, la sua calma mi riempì di rispetto, e il suo riuscire a mantenere uno stato mentale logico e razionale quasi mi confuse. Come poteva trovare in se così tanta forza da sedersi lì calma a spiegare le sue circostanze senza scoppiare a piangere? Poi, realizzai che aveva bisogno di dire quella storia per riuscire a ripercorrere gli eventi degli ultimi giorni, il breve periodo che era stata con suo marito, e le due scelte spaventose che le si presentavano.  Sì, aveva bisogno di raccontare la sua storia.

Qualche settimana dopo, il 24 aprile 2012, mi trovai nell’unità di traumatologia ancora una volta. Questa volta, stavo facendo volontariato come individuo che ha vissuto il trauma e ritorna all’unità di traumatologia per offrire conforto e supporto a pazienti e familiari che stanno vivendo questa esperienza. Un uomo di 65 anni era appena stato ammesso nell’unità per fratture facciali risultanti da una caduta da una scala. Appena sentii questa storia, mi diressi verso il suo letto d’ospedale dove la sua famiglia vegliava su di lui. Dopo le presentazioni, iniziai a dire la mia storia. Raccontai alla famiglia di quelli che erano stati i miei piatti liquidi preferiti quando la mia bocca era completamente bloccata. Parlai loro della chirurgia ricostruttiva e del fatto che “la mia faccia è fatta di metallo” per via delle lastre di metallo usate per tenere insieme le ossa in un sol posto.  Descrissi loro il dolore e la mancanza di esso e dissi loro tutti i dettagli che sapevo dalla mia esperienza. Non risposi a nessuna domanda tecnica medica. Dissi semplicemente la mia storia, ma mentre guardavo le facce avide di risposte dei familiari, iniziai a capire perchè uno sconosciuto può essere interessato alla mia narrativa. Avevano bisogno di sentire quella storia. Risposero con varie domande e infine chiesero, “Quanto tempo fa è stato il suo incidente”? Ho sorriso leggermente e ho risposto “Cinque anni fa oggi”. Avevo bisogno di raccontare questa storia.

Per via delle mie esperienze, credo che la medicina narrativa possa trasformare e dar forma alle scelte di trattamento che vengono fatte per ogni singolo paziente e alla prospettiva con cui gli individui coinvolti le affrontano. Come sopravvissuta a un trauma e futuro medico, mi sento allo stesso tempo umile e privilegiata quando penso al fatto che, un giorno, i pazienti si sentiranno abbastanza a loro agio da condividere la loro storia con me e da permettermi di essere parte della loro. Spero di poter mostrare ai pazienti e alle loro famiglie come mi importi davvero della loro storia, vita, e persona. Voglio far vedere loro l’impatto che la loro narrativa medica può avere sulla propria guarigione e sulla guarigione di altri con esperienze simili. Aspiro anche a continuare a usare la mia medicina narrativa per portare speranza a pazienti e famiglie. È  il tipo di medico che voglio essere.