Dove moriamo

Categoria: Medicina e Società
Pubblicato: Lunedì, 20 Novembre 2017 13:06
Scritto da Ryder Italia Onlus
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David J. Rothman, articolo di dottorato, p.2506 – tradotto dal The New england journal of medicine

 

Fino a una buona metà del XX secolo negli Stati Uniti, il posto più appropriato dove morire era scontato: sia l’ aspettativa che la pratica erano di morire a casa, circondati da amici e famiglia.

Un caso a riguardo riguardò la morte da consunzione (tubercolosi) nel New England prima della Guerra Civile.

In comunità strettamente legate e omogenee, una rete di amici, vicini, parenti, ed ecclesiastici confortava i morenti, aspettando, come Sheila Rothman ha scritto, di camminare con loro “giù fino ai confini del Fiume della Morte”.1

I medici, una volta accertato che la malattia era nella sua fase finale, restavano esterni al processo.

Vi erano sicuramente delle eccezioni. Pensando che  la tubercolosi potesse essere curabile nei climi caldi, uomini e talvolta anche donne viaggiavano verso sud fino alla Georgia, a Cuba o alle Bermuda. Anche se alcuni sopravvivevano il viaggio di andata e ritorno, altri morivano lontani da casa, dando alle proprie famiglie molta angoscia. “È insopportabile”, un fratello aveva scritto a un altro, “che i tuoi occhi verranno chiusi da mani di stranieri in paesi stranieri”.

Ad ogni modo ciò che minò più seriamente queste aspettative condivise fu la Guerra Civile. I soldati feriti in battaglia rappresentarono, come detto da Drew Faust, “Uno scritto esemplare su come non morire”.2

Commilitoni e infermiere fecero grandi sforzi per fare da surrogato della famiglia, cosa che portò grande consolazione ai genitori. In una canzone popolare della Guerra Civile, un soldato che stava per morire chiese alla sua infermiera “di essere sua madre finché non fosse morto”.

Anche più drammatico era il fatto che entrambe gli Unionisti e i Confederati lasciarono molti soldati insepolti o interrati in blocchi senza nome. Quando finirono le ostilità, le famiglie si presero il compito sgradevole e triste di viaggiare fino ai campi di battaglia per cercare di localizzare il proprio parente e organizzare una sepoltura vera e propria.3

La norma di morire a casa continuò anche durante le grandi trasformazioni sociali portate dall’immigrazione e dall’urbanizzazione.

Origini etniche e classe sociale progressivamente divisero le comunità, ma ogni gruppo tipicamente si prese cura di sé. Di nuovo, vi furono delle eccezioni. Le persone indigenti che non avevano famiglie o amici, per esempio, non avevano altra scelta che affrontare la morte in ospedali pubblici che erano indistinguibili dai ricoveri.

Più gravemente, nell’era successiva a quando Robert Koch scoprì la tubercolosi micobatterica, i pazienti con tubercolosi vennero spesso confinati (anche contro la propria volontà) a dei sanatori come parte di una campagna per curare la loro malattia e prevenirne il contagio.

Il personale di queste istituzioni fece soltanto sforzi limitati per rilasciare i pazienti prima che morissero, e quando questo succedeva il loro proposito era tanto di ridurre la mortalità istituzionale quanto di permettere ai pazienti di ritornare in un ambiente confortevole nei loro ultimi giorni.

Il fenomeno che trasformò sia le pubbliche aspettative che l’esperienza fu l’emergere dell’ospedale come luogo di medicina scientifica.

All’inizio del XX secolo, gli ospedali cominciarono a curare, e i pazienti cominciarono a voler occupare volontariamente i propri letti.

Inevitabilmente, nel corso del trattamento, alcuni morirono lì.

Il passaggio alla morte in ospedale comunque non fu immediato: ancora negli anni quaranta la maggior parte delle persone morivano a casa. Nel 1949, solo il 40% degli americani sopra i 65 anni morì in ospedale. Ma nelle successive decadi, mentre l’ospedale progressivamente monopolizzava la cura e accresceva la propria reputazione,  il trend delle morti in ospedale accelerò.

Alla fine degli anni ‘70 e primi anni ’80, più della metà delle morti negli Stati Uniti avvenne in ospedale, mentre la proporzione delle morti avvenute a casa diminuì fino al 15%.

Anche nel 1989, cioè 6 anni dopo l’attuazione del sistema di “pagamento prospettico” (i cui rimborsi fissi e prestabiliti potrebbero aver incoraggiato le dimissioni di pazienti dall’ospedale) e l’introduzione del rimborso Medicare per la cura ospedaliera, il 49% delle morti occorrevano ancora in ospedale e solo il 15% a casa.

Infatti, all’interno dell’ospedale, la morte e il morire erano sempre più segregate dal rispetto al trattamento di routine attraverso l’introduzione di unità di terapia intensiva (UTI) equipaggiate di nuove tecnologie mediche e riempite di nuovi tipi di specialisti.  Il polmone di ferro degli anni ’50 rese possibili i respiratori degli anni ’60, insieme a sistemi di monitoraggio e di imaging innovativi. I primi UTI servirono non solo a rendere la cura più efficiente ed efficace ma anche a isolare i pazienti più malati.

Le unità, isolate da pesanti doppie porte, sembravano misteriose e spaventose. Le ore di visita erano praticamente inesistenti o molto brevi, e anche quando un paziente stava morendo, l’accesso della famiglia era limitato.

In questo modo il processo della morte e del morire vennero rimossi progressivamente e resi doppiamente invisibili, prima attraverso l’ospedalizzazione e poi attraverso  gli UTI.

Era praticamente inevitabile che a tutto questo scattasse una reazione. A cominciare dagli anni 80, un movimento per separare la morte e il morire dagli ospedali e altri servizi di cura prese piede negli Stati Uniti, e il suo impatto crebbe stabilmente. I punti di riferimento sono ben noti: Dame Cicely Saunders fece da pioniere nel movimento degli ospedali  in Inghilterra e aiutò a portarlo negli Stati Uniti.  Elisabeth Kubler-Ross (autrice di Morte e Morire) riprese e rinnovò l’idea di morire a casa. Il programma di benefit di Medicare si espanse e la cura palliativa divenne una specialità riconosciuta e ampiamente praticata. Programmi di Fondazione, compreso il Progetto sulla Morte in America, (Open Society Foundations) e Last Acts (Fondazione Rober Wood Johnson) aiutarono a finanziare un rilevante addestramento dei medici e a proporre e promuovere una risposta pubblica. Le statistiche su come moriamo oggi testimoniano la direzione dei cambiamenti che seguirono, anche se offrono “stimoli per la riflessione” e rendono l’articolo di Cook e Rocker sul morire con dignità nell’ UTI (pagine 2506-2514) anche più rilevante. Anche se i campioni e i metodi variano, secondo tutti gli studi la percentuale di Americani sopra i 65 anni che muoiono a casa è aumentata. I centri per la  Prevenzione e il Controllo della Malattia (CDC) sostengono che tra il 1989 e il 2007, la proporzione di morti avvenute a casa è cresciuta dal 15 al 24%. Teno et al. calcolano un aumento dal 30.7% nel 2000 al 33.5% nel 2009. E la percentuale di persone morte negli ospedali sta diminuendo- secondo i dati del CDC, dal 49 al 35%, e secondo Teno e al., dal 32.6 al 26.9%. Chiaramente, la predominanza delle morti in ospedale sta diminuendo.4

Ad ogni modo, simultaneamente, la probabilità di stare in un UTI sta crescendo.

I data del Dartmouth Atlas indicano che la proporzione dei pazienti che stanno nell’UTI per 7 o più giorni negli ultimi 6 mesi di vita è aumentata dal 15.2% nel 2007 al 16.7% nel 2010. Teno et al. hanno anche scoperto che “la frequenza d’uso dell’UTI nell’ultimo mese di vita è aumentata” dal 24.3% nel 2000 al 29% nel 2009.

Cosa dobbiamo pensare di questi trend contraddittori- più morti a casa e meno in ospedale, ma maggior uso degli UTI?

Prima di tutto c’è stato un cambiamento culturale che ha riportato a morire a casa, non solo come preferenza espressa nei sondaggi ma anche nelle decisioni vere e proprie.

Secondo, è opinione largamente diffusa che gli ospedali non siano più il posto migliore dove morire. Ma in terzo luogo, per quanto i pazienti preferiscano di gran lunga ritornare a casa , sono spesso riluttanti a farlo finché non abbiano provato le più avanzate tecnologie mediche.  Il risultato è che un numero sostanziale di pazienti muore negli UTI durante interventi straordinari per cercare di salvarli. In queste circostanze e per quanto anomalo possa sembrare, l’idea di portare una morte dignitosa nell’UTI è molto attinente.

Credo che non soltanto le barriere tra la famiglia e il paziente nell’unità debbano essere minimizzate, (e sicuramente molti UTI hanno implementato tali politiche), ma il processo decisionale dovrebbe riflettere più pienamente  i principi della cura palliativa.  Una tale cultura dell’UTI non dovrebbe solo promuovere trattamenti aggressivi ma anche aiutare i pazienti e le famiglie a prendere decisioni riguardo alla fine della vita. Questo approccio, come Cook e Rocker osservano, potrebbe sembrare paradossale, ma è ad ogni modo essenziale.

1. Rothman SM. Living in the shadow of death: tuberculosis and the social experience of illness in American history. New York: Basic Books, 1994.

2. Faust DG. This republic of suffering: death and the American Civil War. New York: Vintage Books, 2009.

3. National Center for Health Statistics. Health, United States, 2010: with special feature on death and dying. Washington, DC: Government Printing Office (http://www.cdc.gov/nchs/data/hus/hus10.pdf).

4. Teno JM, Gozalo PL, Bynum JPW, et al. Change in end-of-life care for Medicare beneficiaries: site of death, place of care, and health care transitions in 2000, 2005, and 2009.