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L'agabbadora

Una camminata notturna per portare la morte. È la corsa della "femina agabbadora", consolatrice dei moribondi in Gallura. La donna che batteva le campagne come un’ombra correva lungo i sentieri vicini al mare; arrivata nella casa dove la malattia stava irrimediabilmente consumando qualcuno, con un colpo preciso di martello al capo poneva fine a tutte le sofferenze. Questa donna "finitrice" veniva chiamata alle famiglie in cui c'era un malato o una malata terminale, che soffriva ed era una bocca in più da sfamare e curare, e spesso non si avevano molti soldi. Veniva chiamata da un membro della famiglia e si recava nella casa avvolta da un fazzoletto nero e in ore in cui veniva vista da pochi o nessuno. Aveva con sè una borsa dove riponeva gli arnesi del suo "mestiere": un piccolo giogo di buoi, simbolo di fertilità e morte-rinascita, che veniva piazzato sotto la testa del malato per aiutarlo nel cammino e un martelletto, come quello della foto, conservato nel museo di Luras, in Gallura.

Col martelletto la Agabbadora sferrava un colpo secco alla tempia che interrompeva le sofferenze e la vita. Prima di questo rituale però recitava preghiere e formule magiche per accompagnare l'anima nel suo viaggio e spogliava la stanza d’ogni simbolo religioso e toglieva al malato croci o gioielli. Così com'era arrivata, se ne andava silenziosa scambiando solo uno sguardo coi parenti della vittima, che appena uscita l'agabbadora annunciavano la morte del congiunto e urlavano piangendo. Tutto questo era risaputo anche dalle forze dell'ordine che non intervenivano mai. Per tradizione questa signora era anche una levatrice, quindi spesso portava la vita e la toglieva. Curava le malattie e faceva la medicina dell'occhio, contro il malocchio. Curava con le erbe e le preghiere e non si faceva pagare se non con offerte in cibo. Chiamata dai familiari del moribondo, tollerata dalle istituzioni e dalla Chiesa, rimossa dalla coscienza e dalla tradizione gallurese. A Luras, nel museo etnografico “Galluras” c’è l’ultimo mazzolu, così si chiama in gallurese il martello della femina agabbadori. Lo custodisce gelosamente Pier Giacomo Pala, ideatore ed proprietario del museo: ha trovato il martello in uno stazzo. Un oggetto che certo non è costruito a regola d’arte, più che altro è un ramo di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, con un manico che permette un’impugnatura sicura e precisa. Si tratta di un rustico martello di legno d'olivastro stagionato, reso lucido dall'uso. Lo strumento che amministrava la morte negli stazzi. Suggestione orribile, eppure affascina la figura della donna che sino alla fine dell’Ottocento ha aiutato i malati ad evitare una lunga agonia. Nel museo si possono vedere anche altri oggetti rituali che accompagnavano le ultime ore dei malati terminali. Come ad esempio lu iualeddu, un piccolo giogo in legno che veniva messo sotto il cuscino del moribondo». La riproduzione del giogo simboleggiava la fine della vita. Staccato dai buoi (la forza che trainava l’aratro e il carro), rappresentava il corpo dell’ammalato, privo di vigore e incapace ormai di assolvere al suo compito. Ma se lu juali aveva un valore simbolico, il martello della femina agabbadori è un oggetto funzionale e soprattutto, sino alla seconda metà dell’Ottocento, funzionante. La “femina agabbadora” infatti, riceveva l'incarico direttamente dai parenti dell'ammalato, mossi da un senso d’umana pietà per il familiare moribondo e sofferente, senza ormai alcuna speranza di miglioramento. Era, insomma, una sorta d’eutanasia degli stazzi, praticata sino agli anni Trenta nelle campagne galluresi. Franco Fresi, studioso delle tradizioni della Gallura, ha scritto pagine interessanti sul martello e conosce bene l’argomento. Dice: «Ho avuto la possibilità di parlare direttamente con il nipote di una donna che aveva aiutato i malati a morire. Un uomo molto anziano che aveva superato i 100 anni. Mi ha raccontato di questa eutanasia praticata in Gallura. Un’usanza che oggi può apparire terribile ma che negli stazzi, lontani molti giorni di cavallo da un medico, serviva ad evitare le sofferenze e aveva un suo significato. Il fatto che fosse affidata ad una donna che era anche levatrice significa che aveva una importanza notevole». Le cose andavano così. «La femina agabbadori arriva nello stazzo di notte, sempre. Ai familiari che le stavano di fronte e che l’avevano chiamata diceva questa frase: “Deu ci sia” (Dio sia qui). Poi faceva uscire dalla stanza del moribondo tutti i presenti. La donna assestava il colpo mazzolu provocando la morte del malato. Quasi sempre il colpo era diretto alla fronte. Tanto è vero che la parola agabbadori deriva dallo spagnolo acabar, terminare, ma alla lettera “dare sul capo”. La femina agabbadori andava via dallo stazzo senza chiedere niente, accompagnata dalla gratitudine dei familiari del malato». L’argomento del martello è stato trattato più volte da antropologi e studiosi di tradizioni popolari. Il martello che in Gallura viene chiamato mazzolu ha un corrispondente nel Nuorese, dove viene indicato come mazzoccu, e in Campidano dove invece si usava il termine mazzocca. La pratica dell’eutanasia “rurale” è legata al rapporto che si aveva in Sardegna con la morte. Nell’Isola storicamente c’è stato un rapporto tutto particolare dell’uomo con la morte. Un atteggiamento che può essere definito realistico. Non è mai esistito nella cultura della comunità sarda un terrore vero e proprio rispetto all’ultimo atto della vita di un uomo. Anzi si può parlare quasi di una gestione della morte. Il fenomeno della femina agabbadori, o in logudorese acabbadora, va inquadrato in questo modo: i familiari si adoperano per evitare che il malato soffra pene atroci e mettono fine alla sua esistenza. Fra l’altro uno degli ultimi episodi in Sardegna d’eutanasia, praticata con strumenti come il martello della femina agabbadori è avvenuto nel 1952 ad Orgosolo ed un altro, meno recente, che risale al 1929 proprio a Luras. I carabinieri, nel verbale riguardante quest’ultimo episodio, specificarono che i familiari avevano dato il loro consenso alla soppressione del malato».

"L'agabbadora, La morte invocata." di G. Murineddu, edizioni Chronos
“L’ultima agabbadora.” Di S. Depperu, edizioni il Filo-Terre-Nuove voci